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Documento n. 1 di 1

COMUNI E PROVINCE Giunta comunale e provinciale in genere

COMUNI E PROVINCE Statuti

LEGGI, DECRETI E REGOLAMENTI In genere

PROCEDIMENTO CIVILE Autorizzazione ad agire o a contraddire comuni e province

SINDACO DEL COMUNE Rappresentanza del Comune

Cassazione civile , sez. un., 16 giugno 2005, n. 12868

REPUBBLICA ITALIANA
In nome del popolo italiano


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Vincenzo CARBONE - Presidente aggiunto -
Dott. Rafaele CORONA - Presidente di sezione -
Dott. Vittorio DUVA - Presidente di sezione -
Dott. Enrico PAPA - Consigliere -
Dott. Roberto PREDEN - Consigliere -
Dott. Michele VARRONE - Consigliere -
Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI - Rel. Consigliere -
Dott. Giulio GRAZIADEI - Consigliere -
Dott. Mario CICALA - Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco pro-tempore, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso l'Avvocatura
Comunale, rappresentato e difeso dagli avvocati GABRIELE SCOTTO,
LUIGI ONOFRI, giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
F.I. elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIOVANNI BETTOLO 17,
presso lo studio dell'avvocato ALFONSO QUINTARELLI, che la
rappresenta e difende, giusta delega a margine del controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 589/00 della Commissione tributaria Regionale
di ROMA, depositata il 05/03/01;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
05/05/05 dal Consigliere Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI;
udito l'Avvocato Luigi ONOFRI;
udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. Domenico
IANNELLI che ha concluso per l'ammissibilità del ricorso, rinvio a
sezione semplice.


Fatto

I.F. ricorreva alla Commissione tributaria provinciale di Roma deducendo la nullità della cartella esattoriale del 10 marzo 1997, con la quale le era stato ordinato il pagamento della somma di L. 1.673.000 per tassa di smaltimento di rifiuti solidi urbani e tributo provinciale per l'anno 1997, per errata identificazione del soggetto obbligato, per illegittimità manifesta e violazione del principio di capacità contributiva, per essere stata effettuata la notifica della cartella stessa oltre un mese dalla consegna del ruolo.
Con sentenza del 19 aprile 1999 la Commissione tributaria provinciale accoglieva parzialmente il ricorso.
Proposto appello dal Comune ed appello incidentale dalla F. con sentenza del 18 dicembre 2000 - 5 marzo 2001 la Commissione tributaria regionale rigettava l'impugnazione principale ed accoglieva quella incidentale. Osservava in motivazione la Commissione che, avendo la contribuente avviato nel 1994 un nuovo procedimento di accertamento rispetto a quello iniziale attivato con la denuncia ed essendo l'Ufficio pervenuto a conclusioni diverse da quelle ipotizzate nella seconda denuncia, avrebbe dovuto essere adottato un avviso di accertamento.
Il Comune di Roma proponeva ricorso per cassazione avverso tale sentenza deducendo tre motivi illustrati con memoria. La F. resisteva con controricorso.
Con ordinanza depositata il 10 settembre 2004 la sezione tributaria di questa Corte, rilevato che il Comune di Roma si era costituito in giudizio in persona del sindaco sulla base di una determinazione del dirigente responsabile dell'Unità organizzativa tributi, sollecitava l'intervento delle Sezioni Unite ai fini della soluzione del contrasto giurisprudenziale esistente in ordine alla persistenza della necessità, nel nuovo ordinamento degli enti locali, della autorizzazione al sindaco a stare in giudizio in nome e per conto del Comune e, nel caso di soluzione positiva di detto quesito, in ordine alla possibilità che lo statuto comunale disciplini la materia delle autorizzazioni alle liti attribuendo la relativa determinazione a dirigenti dell'amministrazione, nonché in ordine alla operatività in relazione allo statuto del principio generale del iura novit curia.
Il ricorso era quindi affidato a queste Sezioni Unite ai sensi dell'art. 374 comma 2 c.p.c., sia ai fini della composizione del denunciato contrasto, sia in ragione della particolare importanza delle questioni che lo stesso ricorso solleva.
Il Comune di Roma infine depositava ulteriore memoria.

Diritto

Come risulta dalla esposizione che precede, le questioni che queste Sezioni Unite sono chiamate a risolvere attengono alla necessità, anche nel sistema delle autonomie locali disciplinato dal testo unico di cui al decr. legisl. n. 267 del 2000, della autorizzazione della giunta comunale al sindaco a promuovere o a resistere alle liti e, nell'ipotesi affermativa, alla possibilità che lo statuto detti una disciplina derogatoria, eventualmente investendo del potere deliberativo un dirigente dell'amministrazione comunale, nonché alla applicabilità del principio della scienza ufficiale del giudice in relazione allo statuto.
Ritengono le Sezioni Unite che la soluzione delle questioni in esame postuli una rilettura complessiva dell'ordinamento degli enti locali, attraverso una ricostruzione storico - sistematica degli interventi normativi succedutisi nel tempo, che hanno profondamente inciso sulla fisionomia, sull'autonomia e sull'organizzazione di detti enti, ed un approccio alla problematica che muova dall'analisi del connesso problema della rappresentanza processuale.
Come è noto, su quest' ultimo problema la giurisprudenza di questa Suprema Corte, anche a sezioni unite, è pervenuta a conclusioni non univoche.
Secondo l'orientamento decisamente prevalente la rappresentanza in giudizio del Comune deve considerarsi riservata, in base all'art. 50 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali di cui al decr. legisl. n. 267 del 2000, così come in base al precedente art. 36 della legge n. 142 del 1990, esclusivamente al sindaco e non può essere esercitata dal dirigente titolare della direzione di un ufficio o di un servizio neppure se ciò sia previsto dallo statuto: conseguentemente, ove lo statuto o il regolamento contengano una previsione siffatta, essi devono essere disapplicati dal giudice ordinario, in ragione della loro illegittimità per violazione di legge (così, tra le altre, Cass. 2003 n. 1949; 2003 n. 2583; 2003 n. 2878; 2003 n. 3736; 2003 n. 17360; 2003 n. 19082; 2004 n. 10787; 2004 n. 15634; 2004 n. 18087).
Tali decisioni si fondano, pur nella non completa identità del relativo percorso argomentativo, su una serie di convergenti considerazioni: in primo luogo si rileva che il preciso disposto dell'art. 50 del testo unico di cui al decr. legisl. n. 267 del 2000, il quale riserva al sindaco il potere - dovere di rappresentare il Comune in giudizio, non può subire deroga attraverso il conferimento del potere rappresentativo ad altri soggetti ad opera dell'autonomia normativa comunale. Si osserva inoltre che i poteri di direzione degli uffici e dei servizi attribuiti ai dirigenti dall'art. 107 dello stesso testo unico, includenti quello di adottare atti e provvedimenti amministrativi che impegnano l'amministrazione verso l'esterno e quello di stipulare contratti, non ricomprendono il potere di rappresentanza processuale dell'ente, che non costituisce oggetto di menzione nella analitica elencazione contenuta in detta disposizione. Si rileva ancora che l'art. 6 comma 2 del testo unico consente al Comune di disciplinare con lo statuto il regime delle autorizzazioni a promuovere o a resistere alle liti, in quanto attinente ai modi con i quali la rappresentanza va esercitata, ma non anche di individuare i soggetti che possono rappresentare l'ente in giudizio: si richiama a giustificazione di una limitazione siffatta della potestà statutaria il principio della gerarchia delle fonti, il quale non consente che lo statuto possa sottrarre quel potere all'organo cui il legislatore, avvalendosi delle sue prerogative, ha inteso in via esclusiva affidarlo.
Secondo un diverso e minoritario orientamento lo statuto comunale può legittimamente prevedere che i poteri di rappresentanza processuale spettino ad un dirigente comunale in luogo del sindaco: in tal senso si è espressa Cass. 2002 n. 4845, che ha affermato che la legittimazione a promuovere giudizi in rappresentanza dell'ente, che compete in via primaria al sindaco, può appartenere al segretario generale, nella sua qualità di dirigente di ufficio dirigenziale generale, solo in quanto derivi da una norma dello statuto o del regolamento comunale o sia stata attribuita dallo stesso sindaco, ed ha precisato che la norma di cui all'art. 16 del decr. legisl. 3 febbraio 1993 n. 29, sostituito prima dall'art. 9 del decr. legisl. n. 546 del 1993, poi dall'art. 11 del decr. legisl. n. 80 del 1998, quindi modificato dall'art. 4 del decr. legisl. n. 387 del 1998, infine dall'art. 16 del decr. legisl. n. 165 del 2001, che attribuisce ai dirigenti di uffici dirigenziali generali il potere di promuovere e resistere alle liti e di conciliare e di transigere, non trova diretta applicazione nei confronti dei dirigenti del Comune, in mancanza di adeguamento del suo statuto o regolamento a tale regola, ai sensi dell'art. 27 dello stesso decr. legisl. n.165 del 2001.
Altre recenti decisioni tendono a temperare la rigidità dell'orientamento per primo richiamato, in quanto, pur ribadendo la spettanza unicamente al sindaco del potere di rappresentanza processuale del Comune, ammettono che tale potere possa essere dal sindaco delegato al dirigente responsabile di un ufficio comunale, con riguardo ai rapporti di competenza di tale ufficio (così S.U. 2004 n. 5174 e 5463; 2004 n. 22197).
Ritengono le Sezioni Unite che l'indirizzo giurisprudenziale seguito dalla giurisprudenza prevalente debba essere sottoposto a revisione, in quanto gli argomenti che lo sorreggono, fondati sulla assunzione del dato testuale fornito dall'art. 50 del decr. legisl. n. 267 del 2000 come principio cardine del sistema, tale da influenzare l'intero impianto normativo, riflettono una visione dell'ordinamento degli enti locali superata dai più recenti interventi riformatori, anche a livello costituzionale. Ed è appunto nella rilettura complessiva del sistema istituzionale degli enti locali e della loro autonomia statutaria che la soluzione del problema in esame deve essere rinvenuta.
Come è noto, il processo di riforma avviato con la legge n. 142 del 1990, proseguito con la adozione del testo unico di cui al decr. legisl. n. 267 del 2000 e successivamente approdato alla modifica del titolo V della parte II della Costituzione ed alla successiva legge n. 131 del 2003, di adeguamento dell'ordinamento della Repubblica al nuovo assetto costituzionale, ha prodotto una significativa modifica della struttura e dei poteri degli enti territoriali, secondo una prospettiva volta a consentire a ciascun ente di dotarsi di una struttura organizzativa adeguata alla propria specificità ed ispirata a criteri di economicità, efficienza ed efficacia.
Il sistema delle autonomie locali nell'assetto previsto dalla Costituzione del 1948 rimetteva alla competenza esclusiva dello Stato la disciplina dell'ordinamento dei Comuni e delle Province e la definizione delle loro funzioni: in particolare, l'art. 118 Cost. assegnava alle leggi della Repubblica il compito di individuare, nelle materie di competenza delle Regioni, funzioni amministrative di interesse esclusivamente locale da attribuire alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali, e l'art. 128 Cost. definiva le Province ed i Comuni enti autonomi nell'ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni, fornendo la base costituzionale al riconoscimento della competenza esclusiva della legge statale in materia. Ed anche l'ambito di competenza delle leggi regionali in ordine all'ordinamento dei Comuni era assai limitato, in quanto circoscritto alle materie delle circoscrizioni comunali (art. 117 Cost.), della istituzione di nuovi Comuni e della modifica delle loro circoscrizioni e denominazioni (art. 133 Cost.).
La legge n. 142 del 1990 costituì una tappa importante nella ridefinizione del ruolo di detti enti e del loro rapporto istituzionale con lo Stato e le Regioni, secondo una impostazione tendente ad attribuire agli stessi una effettiva autonomia politica, amministrativa ed organizzatoria.
Le incisive innovazioni introdotte con il federalismo amministrativo a Costituzione invariata di cui alle successive leggi c.d. Bassanini (la legge n. 59 del 1997, la legge n. 127 del 1997, il decr. legisl. n.112 del 1988) - nel quadro del riordinamento e di una distribuzione organica delle funzioni tra Stato, Regioni, enti locali ed autonomie funzionali e nello spirito di un ampio decentramento amministrativo e della semplificazione dei procedimenti - posero l'esigenza di una nuova riforma organica degli enti locali, ispirata a tali principi, che trovò espressione nella legge n. 265 del 1999: in tale sede il legislatore effettuò un' opera di razionalizzazione ed armonizzazione della normativa vigente, fissando il principio di sussidiarietà ed affidando nell'art. 31 la delega al Governo a procedere alla raccolta ed al coordinamento di tutte le disposizioni legislative vigenti in materia di ordinamento degli enti locali, mediante la sistemazione armonica in un codice che garantisse coerenza logica ai diversi interventi normativi succedutisi nel tempo.
In attuazione della delega, il decr. legisl. n. 267 del 2000, nel procedere alla riunione della normativa vigente in materia ed al necessario coordinamento con i principi generali dell'ordinamento, ebbe quindi a dettare la disciplina generale in ordine all'assetto istituzionale degli enti locali, così ponendosi come legge organica di sistema, in attuazione del precetto costituzionale dell'art. 128 Cost., che, come già ricordato, affidava alle leggi generali dello Stato la fissazione dei principi nell'ambito dei quali doveva esprimersi l'autonomia di Province e Comuni.
La riforma del titolo V della parte II della Costituzione ha peraltro comportato una incisiva modifica dell'assetto costituzionale degli enti locali, con l'abrogazione dell'art. 128 Cost., la previsione che la competenza esclusiva della legge statale è circoscritta alla materia della legislazione elettorale, degli organi di governo e delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane (art. 117, comma 2 lett. p ), la equiparazione degli enti territoriali - tutti significativamente menzionati nella stessa disposizione di cui al comma 2 dell'art. 114 - dal punto di vista della garanzia costituzionale e della pari dignità, il riconoscimento di una loro posizione di autonomia statutaria, così da delineare un sistema istituzionale costituito da una pluralità di ordinamenti giuridici integrati, ma autonomi, nel quale le esigenze unitarie si coordinano con il riconoscimento e la valorizzazione delle istituzioni locali.
Tale processo di trasformazione dell'assetto costituzionale ha direttamente coinvolto la natura, la funzione ed i limiti della potestà statutaria del Comune, già riconosciuta nella legge n. 142 del 1990, quale modalità paradigmatica di esplicazione dell'autonomia dell'ente. Va al riguardo ricordato che già l'art. 4 di detta legge attribuiva allo statuto una particolare collocazione rispetto alla tradizionale gerarchia delle fonti, prevedendo che esso, nell'ambito dei principi fissati dalla legge, stabilisse le norme fondamentali per l'organizzazione dell'ente, e quindi affidando a tale strumento di autonomia la regolamentazione della struttura organizzativa dell'ente medesimo.
L'art. 1 della legge n. 265 del 1999 da un lato ampliò il contenuto necessario dello statuto, includendo la previsione di forme di garanzia e di partecipazione delle minoranze e la attribuzione alle opposizioni della presidenza delle commissioni consiliari aventi funzioni di controllo o di garanzia, dall'altro lato, con l'inserimento nell'art. 4 della legge n. 142 del 1990 del comma 2 bis, dispose che la legislazione in materia di ordinamento dei comuni e delle province e di disciplina dell'esercizio delle funzioni ad essi conferite enuncia espressamente i principi che costituiscono limite inderogabile per l'autonomia normativa dei comuni e delle province e che l'entrata in vigore di nuove leggi che enunciano tali principi abroga le norme statutarie con essi incompatibili.
Tale disposizione è stata sostanzialmente riprodotta nell'art. 1 comma 3 del decr. legisl. n. 267 del 2000.
Come appare evidente, l'autonomia statutaria emergente dalla legge n. 265 del 1999 e riaffermata nell'art. 1 del testo unico, ispirata alla legislazione comunitaria che attribuisce la generalità dei compiti e delle funzioni amministrative agli enti locali, è ben più pregnante di quella delineata nella legge n. 142 del 1990, che alle ampie enunciazioni di principio contenute nell'art. 4 associava specifiche disposizioni disciplinanti le materie pur affidate all'autonomia statutaria. L'art. 1 comma 3 del testo unico pone come limiti inderogabili all'autonomia statutaria soltanto i principi espressamente enunciati come tali nella legislazione in materia di ordinamento degli enti locali - così affidando allo stesso legislatore e sottraendo all'interprete l'individuazione dei principi segnati da inderogabilità - con evidente esclusione delle disposizioni di dettaglio: ne risulta delineato un ambito giuridico generale all'interno del quale gli statuti possono liberamente esprimere e promuovere l'autonomia degli enti e realizzare un assetto corrispondente alle peculiarità del contesto sociale ed economico di riferimento.
Nel disciplinare specificamente la materia statutaria, l'art. 6 del testo unico prevede al primo comma che i comuni e le province adottano il proprio statuto, ed al secondo comma dispone che questo, nell'ambito dei principi fissati dal presente testo unico, stabilisce le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente: il tenore prescrittivo delle norme rende evidente che ogni Comune deve dotarsi di un proprio statuto, deputato a dettare le norme fondamentali dell'organizzazione di governo, a fissare i criteri generali sulla organizzazione amministrativa ed il funzionamento dell'ente, a delinearne l'ossatura, le strutture di vertice e le loro articolazioni, le modalità di interrelazione tra i vari uffici, le forme di collaborazione con la Provincia, a disciplinare le altre materie ivi elencate, così da rappresentare l'identità istituzionale di ciascuna comunità locale.
Si è con tale sistema realizzata una sostanziale delegificazione in ordine alla organizzazione ed al funzionamento dell'ente territoriale, mediante il trasferimento della relativa disciplina dalla legge nazionale ad una fonte autonoma, affidata allo statuto, nel rispetto dei principi generali fissati dallo stesso testo unico e degli altri principi espressamente enunciati nelle leggi successive, nonché delle leggi che conferiscono funzioni agli enti locali.
Detto sistema ha profondamente inciso nel rapporto tra legge statale e statuto, in quanto, mentre in passato ogni disposizione di legge costituiva limite invalicabile all'attività statutaria, nella nuova disciplina lo statuto può derogare alle disposizioni di legge che non contengano principi inderogabili: esso è vincolato unicamente al rispetto dei principi innanzi richiamati, tanto da potersi ora delineare il rapporto tra legge e statuto - come è stato efficacemente osservato in dottrina - non tanto o non soltanto in termini di gerarchia, ma anche e soprattutto in termini di competenza - ovvero di gerarchia limitatamente ai principi - e da potersi qualificare lo statuto non più come disciplina di attuazione, ma di integrazione ed adattamento dell'autonomia locale ai principi inderogabili fissati dalla legge.
Il rapporto tra fonti normative statali e locali appare ancor più marcatamente influenzato dalla modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione attuata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, sia in forza della già ricordata delimitazione a settori specificamente e tassativamente determinati degli ambiti di intervento della legge statale (art. 117 comma 2 lett. p ), sia per effetto dell'espresso riconoscimento costituzionale delle potestà statutarie e regolamentari dei Comuni: in particolare, il comma 2 dell'art. 114 sancisce che i Comuni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione (e quindi non più secondo i principi espressamente enunciati come inderogabili dalla legge statale), mentre il comma 6 dell'art. 117 riconosce ai Comuni potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Va ancora ricordato che, successivamente alla riforma costituzionale, la legge 5 giugno 2003 n. 131, recante Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla , ha espressamente enunciato all'art. 4, di attuazione dei richiamati artt. 114 comma 2 e 117 comma 6 Cost. in materia di potestà normativa degli enti locali, che i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà normativa secondo i principi fissati dalla Costituzione, che tale potestà normativa consiste nella potestà statutaria e regolamentare (primo comma), che lo statuto, in armonia con la Costituzione e con i principi generali in materia di organizzazione pubblica, nel rispetto di quanto stabilito dalla legge statale in attuazione dell', stabilisce i principi di organizzazione e funzionamento dell'ente ....(secondo comma), che l'organizzazione degli enti locali è disciplinata dai regolamenti nel rispetto delle norme statutarie (terzo comma), che la disciplina dell'organizzazione, dello svolgimento e della gestione delle funzioni dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane è riservata alla potestà regolamentare dell'ente locale, nell'ambito della legislazione dello Stato o della Regione (quarto comma).
L'art. 2 di detta legge ha inoltre conferito al Governo la delega per l'attuazione dell'art. 117 comma 2 lett. p) Cost. e per l'adeguamento delle disposizioni in materia di enti locali alla legge costituzionale n. 3 del 2001: tra i principi e criteri direttivi della delega vi è quello di garantire... l'autonomia e le competenze costituzionali degli enti territoriali ai sensi degli , e , nonché la valorizzazione delle potestà statutaria e regolamentare dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane (comma 4 lett. a), nonché quello di procedere alla revisione delle disposizioni legislative sugli enti locali, comprese quelle contenute nel testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al , limitatamente alle norme che contrastano con il sistema costituzionale degli enti locali definito dalla (comma 4 lett. g). Il termine per l'adozione dei decreti delegati non è ancora scaduto, essendo stato elevato a due anni con la legge n. 140 del 2004, di conversione con modificazioni del decreto legge n. 80 del 2004.
Nel quadro di tale importante processo di trasformazione dell'impianto istituzionale, in parte già avvenuto, in parte ancora in itinere, appare evidente che il testo unico n. 267 del 2000 ha perso l'originaria connotazione di legge organica di sistema, una volta venuta meno la norma costituzionale di riferimento costituita dall'art. 128 Cost., che come innanzi ricordato affidava a leggi generali dello Stato l'enunciazione dei principi nell'ambito dei quali l'autonomia degli enti locali poteva esplicarsi (così da porre subito l'esigenza di una sua revisione in termini di adeguamento ai nuovi principi costituzionali, espressa nella delega al Governo di cui al richiamato art. 2 della legge n. 131 del 2003), ed altrettanto evidente appare che la previsione del potere normativo locale tra le prerogative contemplate direttamente dalla Costituzione ha ulteriormente rafforzato il valore degli statuti locali nella gerarchia delle fonti.
Nel nuovo quadro costituzionale lo statuto si configura, come la dottrina è generalmente orientata a ritenere, come atto formalmente amministrativo, ma sostanzialmente come atto normativo atipico, con caratteristiche specifiche, di rango paraprimario o subprimario, posto in posizione di primazia rispetto alle fonti secondarie dei regolamenti e al di sotto delle leggi di principio, in quanto diretto a fissare le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente ed a porre i criteri generali per il suo funzionamento, da svilupparsi in sede regolamentare (v. sul punto Cass. 2004 n. 16984).
Ne risulta così accentuata l'immanenza della potestà statutaria al principio di autonomia sancito dall'art. 5 Cost. e la configurazione dello statuto come espressione della esistenza stessa e della identità dell'ordinamento giuridico locale.
Tale mutato quadro normativo di riferimento esige una radicale revisione dell'impostazione tradizionale che escludeva la legittimità di ogni previsione statutaria che conferisse la rappresentanza ad agire e resistere alle liti a persona diversa dal sindaco.
Queste Sezioni Unite condividono il principio, sotteso all'indirizzo giurisprudenziale in precedenza richiamato, che l'art. 50 del testo unico di cui al decr. legisl. n. 267 del 2000, nell'attribuire al sindaco la rappresentanza dell'ente, non contiene alcuna limitazione ad una specifica forma di rappresentanza, e pertanto non consente di circoscrivere detto potere rappresentativo - secondo la tesi seguita da ampia ed autorevole dottrina, che tende a distinguere tra rappresentanza istituzionale, assegnata in via esclusiva dalla legge al sindaco, e rappresentanza giuridico - legale, e quindi, derivatamente, processuale, conferita dall'art. 107 dello stesso testo unico ai dirigenti generali, forniti di autonomi poteri di decisione, di spesa e di organizzazione delle risorse - ai soli aspetti politico - istituzionali: ed invero l'evidente connessione tra l'identificazione del sindaco quale organo responsabile dell'amministrazione (comma 1 dell'art. 50) e l'attribuzione al medesimo della rappresentanza dell'ente (comma 2 dell'art. 50) consente di argomentare che il potere rappresentativo del medesimo si estenda alla intera attività, politica ed amministrativa. Una lettura coordinata delle due previsioni induce a ritenere che il senso della attribuzione di responsabilità espresso nel primo comma è quello della identificazione in un preciso soggetto istituzionale della funzione politica generale dell'ente, cui il secondo comma ricollega un potere di rappresentanza generale, sostanziale e processuale, verso l'esterno, funzionale ad una esigenza di chiarezza e di certezza dei rapporti giuridici, così configurandosi il sindaco quale soggetto esponenziale e dunque rappresentativo del Comune nella sua unitarietà.
E tuttavia va rilevato che nessun elemento è rinvenibile nell'art. 50 né in altre disposizioni del testo unico che induca a ritenere che l'attribuzione della rappresentanza al sindaco sia preclusiva della possibilità che altri soggetti, espressamente indicati nello statuto, siano chiamati a rappresentare il Comune nelle liti attive e passive, conferendo i relativi mandati, così da doversi ravvisare nel principio contenuto nell'art. 50 un limite inderogabile all'autonomia statutaria.
Al contrario, una potestà statutaria in tale direzione trova un espresso fondamento normativo nell'art. 27 del decr. legisl. n. 265 del 2001, contenente norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, lì dove prevede che le amministrazioni non statali, nell'esercizio della propria potestà statutaria e regolamentare, adeguino ai principi dell' e del presente capo i propri ordinamenti, tenendo conto delle relative peculiarità. Va al riguardo rilevato che tra i principi richiamati in tale disposizione è ricompreso quello di cui all'art. 16, il quale, dando continuità a disposizioni già contenute nel decr. legisl. n. 29 del 1993, nel disciplinare le funzioni dei dirigenti di uffici dirigenziali generali, alla lett. f) del primo comma attribuisce agli stessi il potere di promuovere e resistere alle liti, nonché quello di conciliare e di transigere - così attribuendo a detti dirigenti la legittimazione processuale attiva e passiva nelle controversie riguardanti il settore dell'amministrazione cui sono preposti (v. sul punto Cass. 2004 n. 3445; 1998 n. 7349) - e che tale disposizione, ai sensi dell'art. 13 dello stesso decr. legisl., si applica direttamente soltanto per i dirigenti di uffici dirigenziali generali delle amministrazioni statali, anche ad ordinamento autonomo: ne deriva che con il richiamato art. 27 il legislatore ha inteso affidare all'autonomia degli enti locali - in ragione degli elementi di differenziazione di detti enti rispetto alla amministrazione statale in termini di dimensioni, numero di dipendenti, strumenti finanziari, eventuale mancanza della figura del dirigente - il processo di adeguamento ai principi di quella normativa, sia in relazione alle funzioni ed alle responsabilità in ordine all'attività politico - amministrativa, sia con riguardo alla dirigenza, così riconoscendo ai dirigenti dei Comuni in via mediata, attraverso specifiche previsioni statutarie e regolamentari, il potere di agire e resistere alle liti (v. sul punto, con riferimento ai dirigenti delle Regioni, Cass. 2004 n. 23321).
Una volta assegnato allo statuto il valore di norma fondamentale dell'organizzazione dell'ente locale, che non trova altri limiti che quelli imposti da principi espressamente connotati da inderogabilità, ed escluso che il riconoscimento della rappresentanza del Comune in capo al sindaco ad opera dell'art. 50 costituisca un principio inderogabile, si impone una lettura dell'art. 6 comma 2 del testo unico, lì dove prevede che lo statuto specifica...... i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio, nel senso che è attribuito alla autonomia statutaria un potere non limitato alla disciplina organizzativa della rappresentanza legale, ossia alla materia delle autorizzazioni a promuovere o resistere alle liti - secondo una interpretazione letterale della norma non più consentita dal quadro generale di riferimento - ma comprensivo della individuazione del soggetto investito del potere di rappresentanza processuale, in via generale o in relazione a determinate categorie di controversie, assumendo l'inciso anche in giudizio non già in una accezione limitativa, ma estensiva dell'ambito di previsione della norma.
Ed è da ritenere che lo statuto, nel disciplinare la rappresentanza in giudizio, non trovi neppure la limitazione posta dal principio generale dell'ordinamento secondo il quale la rappresentanza processuale non può essere disgiunta da quella sostanziale, atteso che la forza della previsione statutaria vale ad assorbire l'esigenza che a tale principio è sottesa, restando il profilo della competenza sostanziale in ordine alla materia oggetto della lite confinato nella sfera interna dell'organizzazione dell'ente. Si è al riguardo opportunamente posta in evidenza in dottrina l'irrazionalità dell'opzione interpretativa diretta a negare che lo statuto degli enti locali, peraltro in presenza della norma di cui all'art. 6 comma 2 del testo unico, abbia il potere, proprio degli statuti delle persone giuridiche private, ai sensi dell'art. 75 comma 3 c.p.c., di attribuire la rappresentanza processuale anche a soggetti diversi da quelli titolari della rappresentanza legale.
La definizione dello statuto quale atto a contenuto normativo non può non influenzare la soluzione della connessa questione se ed in quale misura esso sia soggetto al principio iura novit curia di cui all'art. 113 c.p.c., inteso come potere dovere del giudice di individuare, anche prescindendo dalle prospettazioni delle parti, e di applicare ai fatti sottoposti al suo esame le norme dirette a disciplinare la fattispecie.
Come è noto, la giurisprudenza più remota poneva la distinzione, nell'ambito delle fonti secondarie, tra gli atti di produzione normativa soggetti ad adeguate forme di pubblicità e quelli ad esse sottratti, e per tale ragione non ricompresi tra quelli che il giudice ha il dovere assoluto di conoscere, pur se tenuto ad applicarli in ogni caso in cui ne abbia personale conoscenza, ovvero in base agli atti acquisiti al processo. Con particolare riferimento ai regolamenti locali, nelle pronunce più risalenti si affermava che, non godendo essi di adeguate garanzie di pubblicizzazione, per essere la loro pubblicazione a diffusione meramente locale, al dovere del giudice di applicarli, avendo essi contenuto di norme giuridiche, non corrispondeva un dovere di conoscenza in senso assoluto tale da richiedere la ricerca di ufficio, sussistendo invece un onere di allegazione delle parti, così da consentire al giudice la loro applicazione (v. sul punto, tra le tante, Cass. 1972 n. 1030; 1972 n. 1962; 1973 n. 299; 1974 n. 3968; 1975 n. 1279; 1975 n. 2784; 1975 n. 3511; 1976 n. 1742; 1979 n. 6333).
Tale principio fu in seguito sottoposto a revisione da parte di una giurisprudenza sempre più incline a ritenere, pur con qualche contrasto (v. Cass. 2000 n. 1865; 2004 n. 22648), ma con il favore della dottrina, che in relazione ai regolamenti locali il problema della scienza ufficiale del giudice si ponesse negli stessi termini di quello della conoscenza delle norme di legge vigenti, così che il giudice, compreso quello di legittimità, dovesse acquisirne diretta e completa conoscenza, indipendentemente da una attività assertiva e probatoria delle parti (v. in tal senso Cass. 1975 n. 2135; 1987 n. 777; 1992 n. 11095; 2002 n. 4372; 2002 n. 12561; 2003 n. 6012; 2003 n. 6837).
Ad una siffatta soluzione deve a più forte ragione pervenirsi con riferimento agli statuti comunali, tenuto conto della loro richiamata natura di atti a contenuto normativo, di rango certamente superiore a quello dei regolamenti, e considerata anche la triplice forma di pubblicità cui essi sono soggetti: a livello locale, con l'affissione all'albo pretorio per trenta giorni consecutivi, a livello regionale, con la pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione, a livello nazionale, con l'inserzione nella raccolta ufficiale degli statuti curata dal Ministero dell'Interno, che ne cura anche adeguate forme di ulteriore pubblicità (art. 6 comma 5 e 6 del testo unico). Né può omettersi di considerare che un immediato e agevole strumento di conoscenza, accessibile da ogni cittadino, è fornito dal loro inserimento in rete. Va pertanto affermato che la conoscenza dello statuto appartiene alla scienza ufficiale del giudice, tenuto a disporne l'acquisizione anche di ufficio.
Dai principi in precedenza esposti consegue che lo statuto può legittimamente affidare la rappresentanza a stare in giudizio ai dirigenti, nell'ambito dei rispettivi settori di competenza, quale espressione del potere gestionale loro proprio, ovvero ad esponenti apicali della struttura burocratico-amministrativa del Comune, ma che ove una specifica previsione statutaria non sussista il sindaco resta il solo soggetto titolare del potere di rappresentanza processuale, ai sensi dell'art. 50 del testo unico.
Deriva altresì che se lo statuto affida la rappresentanza a stare in giudizio in ordine all'intero contenzioso al dirigente dell'ufficio legale, questi, ove ne abbia i requisiti, può costituirsi senza bisogno di procura, ovvero attribuire l'incarico ad un professionista legale interno o del libero foro (salve ovviamente le ipotesi, legalmente tipizzate, nelle quali l'ente può stare in giudizio senza il ministero di un legale: v. da ultimo, in relazione al processo tributario, l'art. 3 bis del d.l. n. 44 del 2005, convertito, con modif., nella l. n. 88 del 2005), ed ove abilitato alla difesa presso le magistrature superiori può anche svolgere personalmente attività difensiva nel giudizio di cassazione.
Ove per contro la disciplina della rappresentanza in giudizio sia contenuta non nello statuto, ma nel regolamento, tale previsione può conferire validamente la legittimazione processuale a soggetti diversi dal sindaco soltanto in presenza di un espresso rinvio dello statuto alla normativa regolamentare, atteso che il richiamato art. 6 comma 2 del testo unico consegna allo statuto la disciplina dei modi di esercizio della rappresentanza legale.
Va al riguardo osservato che, se è certamente vero che l'esercizio della potestà regolamentare costituisce anch' esso espressione della autonomia dell'ente locale, in quanto attua la capacità dell'ente di porre autonomamente le regole della propria organizzazione e del funzionamento delle istituzioni, degli organi, degli uffici e degli organismi di partecipazione, ed ha trovato anch' esso riconoscimento costituzionale nel nuovo testo dell'art. 117 Cost., è tuttavia altrettanto vero che la disciplina delle materie che l'art. 7 del testo unico affida al regolamento deve avvenire nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dello statuto: ciò vale a dire che il potere di autorganizzazione attraverso lo strumento regolamentare deve svolgersi all'interno delle previsioni legislative e statutarie, così ponendosi un rapporto di subordinazione, pur se non disgiunto da un criterio di separazione delle competenze, tra statuto e regolamento. Tale collocazione nell'ambito del sistema delle fonti locali appare peraltro recepita nel disposto dell'art. 4 comma 3 della legge n. 131 del 2003, ai sensi del quale l'organizzazione degli enti locali è disciplinata dai regolamenti nel rispetto delle norme statutarie.
Per quanto attiene al diverso, ma connesso problema - che in questa sede particolarmente rileva - della persistenza, nella nuova cornice legislativa di riferimento, della necessità di autorizzazione della giunta comunale a promuovere o resistere alle liti, il contrasto esistente nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, ed anche nell'ambito delle sezioni unite, deve essere composto in termini coerenti con i rilievi in precedenza svolti.
Come è noto, nel vigore dell'abrogato testo unico della legge comunale e provinciale approvato con il r.d. 4 febbraio 1915 n. 148 la decisione in ordine alle azioni da intraprendere e da sostenere in giudizio spettava in via generale al consiglio comunale, ai sensi dell'art. 131 comma 1 n. 5, ma la giunta comunale poteva deliberare in via di urgenza, secondo il disposto di cui all'art. 140, salva ratifica del consiglio, ed in via autonoma, senza necessità di ratifica, nel caso di azioni possessorie e di quelle non eccedenti la competenza pretorile (art. 25 del r.d. 30 dicembre 1923 n. 2839, richiamato espressamente in vigore dall'art. 25 della legge 9 giugno 1947 n. 530). In tale assetto normativo la giurisprudenza di questa Suprema Corte era univoca nel ritenere che il difetto di una valida autorizzazione, incidendo sulla legittimazione processuale del sindaco, comportasse il difetto di un presupposto del rapporto processuale rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del giudizio (v., ex plurimis, Cass. 1979 n. 1320; 1980 n. 331; 1984 n. 1159; 1988 n. 914).
La legge 8 giugno 1990 n. 142 non menzionava espressamente la materia delle liti attive e passive: nel definire le competenze degli organi dell'ente disponeva all'art. 32 che il consiglio è l'organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo ed ha competenza limitatamente agli atti fondamentali indicati alle lettere da a) a n) del comma 2, mentre all'art. 35 prevedeva che la giunta compie tutti gli atti di amministrazione che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non rientrino nelle competenze, previste dalla legge o dallo statuto, del sindaco o del presidente della provincia, degli organi di decentramento, del segretario o dei funzionari dirigenti.
Con sentenza n. 11064 del 1992 queste Sezioni Unite, esaminando il nuovo riparto funzionale tra gli organi di governo delineato dalla riforma del 1990, affermarono che nel nuovo ordinamento competente in via esclusiva ad autorizzare il sindaco a stare in giudizio in nome e per conto del Comune non era più il consiglio comunale, le cui competenze erano state tassativamente definite dall'art. 32, ma la giunta municipale, in forza delle sue attribuzioni residuali su tutti gli atti non riservati, dalla legge o dallo statuto, alla competenza del sindaco, del consiglio, degli organi di decentramento, del segretario e dei funzionari dirigenti, ed esclusero che lo statuto potesse conferire direttamente al sindaco (se non limitatamente alle azioni cautelari e possessorie) il potere di autonoma valutazione degli interessi sottesi all'azione, esonerandolo dalla necessità della autorizzazione, dovendo lo statuto essere deliberato nell'ambito dei principi fissati dalla legge, secondo il disposto dell'art. 4.
Tale orientamento venne ribadito dalla sentenza, anch' essa a sezioni unite, n. 1325 del 1996, la quale riaffermò che l'autorizzazione degli organi competenti è una condizione di efficacia della costituzione in giudizio degli enti pubblici, i quali in caso di suo mancato rilascio sono privi della capacità processuale, e che in particolare il sindaco, per proporre il ricorso per cassazione e conferire allo scopo la procura speciale al difensore, deve essere autorizzato con deliberazione della giunta municipale. A detto indirizzo si uniformarono le successive sentenze n. 1889 del 1996; n. 6395 del 1996; n. 5585 del 1997; n. 13137 del 1997; n. 1853 del 1998; n. 5286 del 1998; n. 10378 del 1998; n. 7190 del 2000; S.U. n. 179 del 2001; n. 6546 del 2001; S.U. n. 10979 del 2001; n. 18224 del 2002; n. 13218 del 2003; n. 5537 del 2004; n. 14220 del 2004; n. 17936 del 2004; n. 18087 del 2004).
Ed anche la pronuncia n. 186 del 2001 di queste Sezioni Unite, erroneamente talvolta citata come espressione del diverso orientamento che tende a dispensare in ogni caso il sindaco dalla previa autorizzazione, escluse l'esistenza di un potere del sindaco di promuovere autonomamente le liti, affermando che nell'ordinamento delle autonomie locali di cui alla legge n. 142 del 1990 il sindaco può agire o resistere in giudizio in rappresentanza del Comune, pur in mancanza di autorizzazione della giunta, allorché lo statuto gli assegni la competenza in tema di liti attive e passive, così riconoscendo il potere dello statuto di dispensare il sindaco dalla previa autorizzazione.
Il superamento della necessità di una delibera autorizzativa, a prescindere da specifiche previsioni statutarie, è invece desumibile dalla sentenza, ancora a sezioni unite, n. 17550 del 2002, secondo la quale competente a conferire al difensore del Comune la procura alle liti è il sindaco, senza che sia necessaria l'autorizzazione di giunta.
L'indirizzo seguito dalla richiamata decisione a sezioni unite n. 186 del 2001 appare condiviso da numerose pronunce successive, le quali hanno ribadito, sia con riferimento al sistema disciplinato dallalegge n. 142 del 1990, sia con riguardo al nuovo assetto degli enti locali dettato dal testo unico del 2000, che è necessaria l'autorizzazione della giunta perché il sindaco possa promuovere la lite, ma che la disciplina relativa alla deliberazione sull'azione o sulla resistenza in giudizio è suscettibile di deroga in via statutaria (v., tra le altre, Cass. S.U. 2002 n. 9439; 2003 n. 1949; 2003 n. 2878; 2003 n. 17360; 2003 n. 19082, in motiv.)
Può pertanto ritenersi allo stato come sostanzialmente acquisito nella giurisprudenza di legittimità che l'art. 6 del testo unico di cui al decr. legisl. n. 267 del 2000, lì dove prevede che lo statuto stabilisca i modi di esercizio della rappresentanza legale, anche in giudizio, possa dettare una diversa disciplina in tema di autorizzazione alle liti attive e passive, esonerando il sindaco dalla preventiva autorizzazione, così implicitamente escludendo che lo stesso sindaco sia autonomamente titolare del potere di decidere se agire o resistere in giudizio. Ed anche la giurisprudenza amministrativa è generalmente attestata su tale posizione.
La considerazione del nuovo assetto delle competenze degli organi del Comune delineato dalla normativa vigente impone la revisione anche di tale orientamento. Ed invero nel nuovo ordinamento delle autonomie locali il sindaco ha assunto, tanto più con lalegge 25 marzo 1993 n. 81 che ne ha previsto l'elezione diretta, un ruolo politico ed amministrativo centrale, in quanto titolare di funzioni di direzione e di coordinamento dell'esecutivo comunale, onde l'autorizzazione del consiglio prima e della giunta poi, se trovava ragione in un assetto in cui il sindaco era eletto dal consiglio e la giunta costituiva espressione del consiglio stesso, non ha più ragione di esistere in un sistema nel quale il medesimo trae direttamente la propria investitura dal corpo elettorale e costituisce egli stesso la fonte di legittimazione degli assessori che compongono la giunta, cui l'art. 48 del testo unico affida il compito di collaborare con il sindaco e di compiere tutti gli atti rientranti nelle funzioni degli organi di governo che non siano riservati dalla legge al consiglio e che non ricadano nelle competenze, previste dalla legge o dallo statuto, del sindaco o degli organi di decentramento.
La configurazione della giunta quale organo di governo, e al tempo stesso la considerazione dei poteri e delle responsabilità nella gestione amministrativa che l'art. 107 del testo unico attribuisce ai dirigenti, inducono a ritenere che l'autorizzazione alla lite, quale atto essenzialmente gestionale e tecnico, da parte dell'organo giuntale non costituisca più in linea generale atto necessario ai fini della proposizione o della resistenza alle azioni.
Atteso peraltro, in forza delle considerazioni innanzi svolte, che sussiste certamente il potere dello statuto di regolare il regime dell'esercizio della rappresentanza, deve argomentarsi che in ogni caso in cui lo statuto, con la forza sua propria, preveda l'autorizzazione della giunta - in ragione della connotazione latamente politica che le decisioni di agire o resistere in giudizio possono assumere, specie in riferimento a determinate tipologie di atti e di controversie, così da comportare valutazioni segnate da ampi spazi di discrezionalità politica in ordine alla scelta di difendere in giudizio la legittimità e la correttezza degli atti o comportamenti contestati - ovvero richieda una preventiva determinazione del competente dirigente, ovvero ancora postuli alternativamente l'uno o l'altro intervento in relazione alla natura o all'oggetto delle controversie, l'autorizzazione giuntale o la determinazione dirigenziale vanno considerati come atti necessari, per espressa scelta statutaria, ai fini della legittimazione processuale dell'organo titolare della rappresentanza.
È peraltro da ritenere che, ove lo statuto preveda che il sindaco agisca o resista in giudizio previa determinazione del dirigente competente, tale determinazione si sostanzi in una mera valutazione tecnica circa l'opportunità della lite, non potendo configurarsi come autorizzazione in senso proprio quella del dirigente al sindaco, che ha già la rappresentanza legale ed è il capo dell'amministrazione e che diverrebbe esecutore di detta determinazione (v. sul punto Cass. 2003 n. 19380; Cons. Stato 2004 n. 155).
In applicazione dei principi che precedono, ritenuto che il sindaco del Comune di Roma si è costituito previa determinazione del dirigente dell'Unità organizzativa tributi n. 244 del 10 dicembre 2001, in conformità alla previsione di cui all'art. 34 comma 4 dello statuto approvato con deliberazione n. 122 del 17 luglio 2000, prodotto in giudizio, ed al regolamento di organizzazione per l'esercizio dell'azione di promovimento del giudizio, resistenza alle liti, conciliazione e transazione, approvato con deliberazione n. 182 del 27 gennaio 2001, anch' esso prodotto in giudizio, il quale specifica le modalità di intervento dei dirigenti responsabili delle unità organizzative competenti ai fini della proposizione o della resistenza alle liti, va affermata l'ammissibilità del ricorso, da esaminare quindi nel merito.
Deve essere pertanto disposta la trasmissione degli atti alla sezione tributaria per l'esame dei motivi di ricorso.

P.Q.M

La Corte di Cassazione, a sezioni unite, dichiara ammissibile il ricorso. Rimette gli atti alla sezione tributaria per l'esame dei relativi motivi.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio delle sezioni unite civili il 5 maggio 2005.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 16 GIU. 2005

Costituzione della Repubblica art. 114
Costituzione della Repubblica art. 117
Costituzione della Repubblica art. 128
Disposizioni sulla legge in generale (Preleggi) art. 1
Codice Procedura Civile art. 75
Codice Procedura Civile art. 82
Codice Procedura Civile art. 83
Codice Procedura Civile art. 113
LS 4 febbraio 1915 n. 148 art. 131 R.D.
LS 4 febbraio 1915 n. 148 art. 140 R.D.
LS 4 febbraio 1915 n. 148 art. 151 R.D.
LS 8 giugno 1990 n. 142 art. 35 L.
LS 8 giugno 1990 n. 142 art. 36 L.
LS 8 giugno 1990 n. 142 L.
LS 25 marzo 1993 n. 81 L.
LS 18 agosto 2000 n. 267 art. 1 D.LG.
LS 18 agosto 2000 n. 267 art. 6 D.LG.
LS 18 agosto 2000 n. 267 art. 7 D.LG.
LS 18 agosto 2000 n. 267 art. 48 D.LG.
LS 18 agosto 2000 n. 267 art. 50 D.LG.
LS 18 agosto 2000 n. 267 art. 88 D.LG.
LS 18 agosto 2000 n. 267 art. 97 D.LG.
LS 18 agosto 2000 n. 267 D.LG.
LS 18 agosto 2000 n. 267 art. 107 D.LG.
LS 18 agosto 2000 n. 267 art. 108 D.LG.
LS 30 marzo 2001 n. 165 art. 16 D.LG.
LS 30 marzo 2001 n. 165 art. 27 D.LG.
LS 18 ottobre 2001 n. 3 L.COST.
LS 5 giugno 2003 n. 131 art. 4 L.
LS 5 giugno 2003 n. 131 L.
LS 31 marzo 2005 n. 44 art. 3 D.L.
LS 31 marzo 2005 n. 44 art. 3 bis D.L.
LS 31 maggio 2005 n. 88 L.



>> Note: <<

- Non si rinvengono precedenti in termini.

- Non si rinvengono precedenti in termini.


- Nel nuovo quadro delle autonomie locali, ai fini della rappresentanza in giudizio del Comune l'autorizzazione alla lite da parte della giunta comunale non costituisce più, in linea generale, atto necessario ai fini della proposizione o della resistenza all'azione, salva restando la possibilità per lo statuto comunale - competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell'ente, anche in giudizio (ex art. 6, comma 2, del testo unico delle leggi sull'ordinamento delle autonomie locali, approvato con il d.lg. 18 agosto 2000 n. 267) - di prevedere l'autorizzazione della giunta, ovvero di richiedere una preventiva determinazione del competente dirigente (ovvero, ancora, di postulare l'uno o l'altro intervento in relazione alla natura o all'oggetto della controversia). Ove l'autonomia statutaria si sia così indirizzata, l'autorizzazione giuntale o la determinazione dirigenziale devono essere considerati atti necessari, per espressa scelta statutaria, ai fini della legittimazione processuale dell'organo titolare della rappresentanza. In senso contrario si era espressa Cass. 28 luglio 2004 n. 14220.